TI RICORDO ANCORA – UN FALCO SOTTO LA CURVA
25-10. Quattro cifre, due numeri. Sono quelli di Lulù, anche se mi fanno pensare a mio padre, perché fa il compleanno proprio quel giorno del calendario. Ah già, mio padre, lo stesso che mi ha passato questa fissazione irremovibile per il Catania, innamorato ancor più di me di questa magnifica storia. Ma a lui invece questa predilezione per i colori rossazzurri chi l’ha trasmessa? Risposta facile: tutta colpa di mio nonno che seguiva ogni partita di calcio, ma quando era il Catania a giocare, ecco che il mondo poteva pure scoppiare in quelle due orette scarse della domenica, tanto lui stava con la radiolina accesa prima che si passasse alla TV. Ah… e poi andava pure allo stadio, sempre fedele abbonato ovviamente. Ma che ve lo dico a fare in fin dei conti, era scontato dai.
E proprio mio nonno nel 2003 mi faceva ridere un sacco, perché ogni volta che il Barroso toccava la palla, allora esclamava subito: “Lulù, Lulù… Lulù dagli occhi blu!”. Tra l’altro Oliveira mica aveva gli occhi blu, ma più scuri della cenere dell’Etna, ecco perché mi faceva ridere ogni volta che glielo sentivo urlare dalla tribuna, come se fosse un rito scaramantico che accompagnava ogni sua implacabile cavalcata verso la porta dell’avversario di turno.
Sì, oggi raccontiamo chi fosse Luis Airton Oliveira Barroso, detto Lulù, nato a São Luis e cresciuto ad Anderlecht, precisamente il brasiliano più belga che sia mai esistito in questo gioco. Voi ricordate quanto fosse forte? Aveva disputato campionati di Serie A di un certo livello, addirittura militando da titolare nell’attacco degli strepitosi Viola di Rui Costa e Batistuta (RUI COSTA e BATISTUTA, avete letto bene). Destro potente e preciso, ma usava anche il sinistro perché i giocatori bravi calciano con entrambi i piedi, non esistono scuse per loro. Aveva il passo danzante e un’intelligenza tattica a dir poco sublime. Movimenti con e senza palla che infiammavano le platee soltanto al pensiero: “Ma come diavolo fa semplicemente ad immaginarle certe cose?!”. Non è che abbia mai capito se avesse un ruolo davvero definito in mezzo al campo, ve lo dico con grande onestà, perché in verità poteva fare tutto lì davanti: stare al centro, a destra o a sinistra, fermo o in corsa, tanto il risultato finale era quello di mettere a sedere comunque i difensori avversari. Punto di riferimento per tutti i compagni: “Tanto c’è Lulù, passagli la palla” e lui via a correre in contropiede, serviva l’assist vincente oppure sfondava la rete, poco cambiava perché poi tutti lo raggiungevano per abbracciarlo.
Non bisogna esagerare per carità, anche perché Roberto Baggio è l’idolo del calcio italiano e quindi va sempre onorato e rispettato, ma Oliveira al Catania era proprio come il Divin Codino al Brescia… e non solo perché anche lui ne portava uno simile dietro la nuca: capitano, trascinatore, fuoriclasse al di sopra di tutti. Ok, va bene, meglio non allargarsi troppo seppur ormai scripta manent, ma pensate alla partita del “Celeste” di Messina: era appena arrivato, aveva solo giocato una volta, c’era chi addirittura fosse scettico per l’età avanzata e poi… tripletta!
Oliveira sapeva togliere le castagne dal fuoco in ogni momento critico, tant’è che ci si affidava soprattutto alla sua freddezza nelle partite più ostiche, aspettando con trepidazione quella giocata sorprendente che puntualmente arrivava e faceva esplodere i tifosi di gioia. E poi dipingeva Catania di rossazzurro, sempre. Come nel derby col Palermo: partì questo lancio lungo da parte di Martusciello, senza neanche toccare il pallone mandò al bar Bilica e poi trafisse i rosanero sotto la Sud. Da lì spiccò il volo del Falco, braccia spalancate a mimare le ali fiere di un predatore d’area di rigore.
Siamo ingordi di ricordi, allora andiamo subito con la mente al derby di ritorno, quando segnò uno dei gol più belli della sua carriera: palla lunga di Gatti in profondità, lui partì in velocità, davanti al portiere fece finta di tirare portandolo a cadere per poi dribblarlo immediatamente dopo; nel frattempo giunse un difensore, allora ecco un’altra finta per convincerlo che stesse tirando senza averne realmente alcuna intenzione in verità; ne arrivò un altro e s’inventò ancora una finta; infine accorse in aiuto pure il terzo, ma quest’ultimo andò da una parte, mentre il pallone dall’altra. In una sola parola: arte.
Ma la vera essenza di Luis Airton Barroso probabilmente non stava tutta lì, perché nella partita contro il Napoli in casa dell’anno dopo fece qualcosa di straordinario a livello quanto meno allegorico. Non era un periodo facile, c’era tanta tensione e serviva dannatamente un successo ai rossazzurri per svegliarsi dal torpore. Partita tirata, poche occasioni nitide e nessuno strappo. Così il compito di spezzare gli equilibri fu affidato ancora, inesorabilmente, a lui. Lo fece con un gol bello, bellissimo… anzi alla Lulù: corse palla al piede, invase l’area di rigore, penetrò la retroguardia partenopea, finta di corpo a destra, poi a sinistra, di nuovo a destra e ancora a sinistra, rasoterra mancino che passò sotto le gambe del marcatore e il portiere fu battuto: pura estasi.
Un Falco che vola sotto la curva, un abbraccio simbolico col popolo etneo. Esplosione di rabbia e di gioia nello stesso indentico istante, mentre stringe la maglia al petto e giura di sentire vicina tutta la gente che crede in lui, come se le loro stesse emozioni scorrano sulla sua pelle. Tutta quella tensione accumulata che sfocia in un pianto dirompente e commovente. Io bambino che lo guardo dagli spalti e decido che quel giorno non me lo dimentico più. Che meraviglia era, Lulù Oliveira.
Federico Fasone