TI RICORDO ANCORA – VADO AL MAXIMO
Gennaio 2010, alla disperata ricerca di una salvezza che porta ancora con sé il sapore dell’impresa, passando inevitabilmente dai gol di un bomber che ci avrebbe subito entusiasmato per potenza fisica, forza esplosiva e tecnica esemplare. Il suo approdo a Catania fu una sorpresa per tutti, infatti Lo Monaco commise un autentico scippo a Lotito, indubbio smacco per quei tempi lì, perché una piccola soffiava da sotto il naso di una grande un attaccante pazzesco per potenziale. Maxi Lopez era diventato rossazzurro e noi stavamo già godendo.
Sorriso beffardo del destino, ironia della sorte che spalancò i denti dritto in faccia al presidente biancoceleste, direttamente all’Olimpico di Roma. Ricchiuti avanzò fino a trequarti campo, poi scaricò palla su Mascara che mise in mezzo per la Galina de Oro. Prima marcatura in Serie A nel giorno dell’esordio, contro gli avversari che dovevano essere compagni, ma che invece furono infilati da una girata in spaccata, volta a perforare la rete. Mani alle orecchie per sentire il malcontento del pubblico capitolino e Lazio finalmente sconfitta a casa sua: il biondo era già entrato nei nostri cuori.
Quando sbarcò qui, aveva una dannata voglia di spaccare il mondo. Una volta giunto in Sicilia, comprò una Ferrari con la quale sfrecciare per le vie della città, soprattutto in campo però era assoluto protagonista. 3 aprile, giorno del suo compleanno, derby contro il Palermo. Perciò decise di regalarsi e di regalarci una preziosissima doppietta, composta prima da una cavalcata inesorabile verso la porta di Sirigu, finalizzata con un tiro imprendibile sul secondo palo, e poi dal suo tocco a ribadire in rete un pallone vacante, dopo la sgroppata più bella di Martinez in maglia rossazzurra. Ma ancor prima, non poteva mancare il nome di Maxi nel tabellino della vittoria del secolo contro l’Inter del triplete: Izco portava palla, poi serviva Alvarez sulla destra che la metteva forte e tesa al centro per l’argentino, chiamato a quel punto soltanto a correggerne la traiettoria alle spalle di Julio Cesar.
Tiro ad incrociare sul palo più lontano, la sua specialità. Vedere per credere nella Scala del calcio, sponda rossonera. Filtrante preciso di Ricchiuti per il centravanti che mirò verso il lato opposto al suo: Dida battuto e Catania in vantaggio in casa di un’altra grande. Ma la perla più bella ce la consegnò in una partita che ci fece indemoniare per il lassismo mostrato dagli etnei a Livorno. Sotto di tre reti a zero, poi all’improvviso arrivò un fulmine a ciel sereno che provenì direttamente dai suoi piedi a placare la nostra rabbia infinita per quel pomeriggio completamente storto: sforbiciata spettacolare che s’insaccò all’incrocio dei pali. Inutilissima e al contempo bellissima ai nostri occhi.
Ultima giornata di campionato, undicesimo gol in diciassette presenze, nientepopodimeno che trentasei punti conquistati sotto la gestione Mihajlovic. Chiuse i giochi, neanche a dirlo, proprio Maxito nella vittoria contro il Genoa: cross in mezzo di Capuano e ancora gol in spaccata dell’argentino biondo che faceva impazzire il nostro mondo. Così come aveva cominciato, allora doveva finire. L’anno dopo credevamo tutti che ci avrebbe portato in Europa a suon di gol, perché aveva dei numeri semplicemente pazzeschi. Solo che non avevamo considerato che Maximiliano si chiamasse pure Gastón di secondo nome, gemello cattivo di quello che avevamo imparato a conoscere durante il campionato precedente. Lento e inesorabile declino in termini di gol e prestazioni, complice Giampaolo che prediligeva un calcio pragmatico e privo di grandi spunti offensivi. Ma a dire la verità la solfa non cambiò nemmeno con Simeone in panchina. Eppure quell’anno ci deliziò con un’altra meravigliosa sforbiciata nel match casalingo contro il Brescia. Gomez cercò qualche compagno in area di rigore, un difensore lombardo in anticipo fu sfortunatissimo nel servire grottescamente Lopez che si creò il gol dal nulla, con un gesto balistico di pregevolissima fattura. Tanto per farvi capire che poteva avere un potenziale da pallone d’oro, ma purtroppo poi la pigrizia prese il sopravvento su quelle prospettive di carriera che l’avevano catapultato da Barcellona a Catania nel giro di qualche anno.
Me le ricordo bene le sue lacrime in un altro derby, quello che sancì di fatto la fine della sua primissima avventura col rossazzurro indosso. Un calcio di rigore per salutare quel pubblico che nel bene e nel male l’aveva sempre amato, estremamente grato alla gente che l’aveva coccolato affettuosamente fino a quel momento, credendo sempre nelle sue capacità.
Tuttavia non fu l’ultima volta che lo vedemmo vestire quella maglia, perché il destino gli giocò un brutto scherzo ancora una volta. Col Milan andò male, alla Sampdoria invece non andò benissimo e così dopo quasi due anni ce lo ritrovammo di nuovo in squadra con tanti chili in più sul groppone da smaltire assolutamente per provare a dare ancora un senso alla sua carriera. Cresta e numero dieci sulle spalle, non aveva più il capello lungo e la sua indimenticabile undici, ma la voglia di sognare ed esultare coi suoi gol per noi restava pressoché immutata. Soprattutto perché navigavamo in acque piuttosto mosse e ci piaceva ripensare al fatto che Maxito potesse essere ancora per una volta il nostro paladino goleador. Eppur così non fu: il sogno rimase illusione, dolce come quel tiro dal dischetto che valse la vittoria ai danni dell’Udinese, ma tremendamente amara perché quella fu l’unica e l’ultima gioia di cui godemmo con l’argentino a gonfiare la rete. Nessun lieto fine per la gallina bionda, né per il nostro insostituibile elefantino. Strade che di lì a poco si separarono definitivamente.
Storie di calcio nostrano e di campioni che non diedero seguito alle aspettative di cui li caricammo. Maxi Lopez era un fenomeno, sfociava di meraviglia e di ammirazione, però sapeva anche incarnare la delusione cocente per le occasioni sciupate. Alieno o umano a seconda degli umori e delle sensazioni. Chissà se l’abbiamo sopravvalutato davvero, ancora ci chiediamo quale fosse il rovescio sbagliato della medaglia. Ad ogni modo, in un universo parallelo, io lo vedo ancora proteggere palla per reggere l’urto di un difensore, scardinare la retroguardia avversaria e sfondare la porta col destro spietato. Poi sorridere insieme ai compagni e infiammare la folla. Perché quando c’era lui andavamo comunque al Maximo, senza dubbio alcuno.
Federico Fasone