FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI
“Presto, presto. Metti il cappellino e la sciarpa, siamo in ritardo, troveremo confusione!”. Mio padre che si sbriga ad accendere la macchina, ancora prima di arrivare allo stadio sa già dove posteggiare. Poi la rituale passeggiata che ci porta verso i prefiltraggi. “Chi gioca? Che hanno fatto le altre? E adesso com’è la classifica?”. Noi siamo lì, che viviamo l’attesa della partita. Tutti in fila, dobbiamo passare il biglietto, poi finalmente saremo dentro. Saliamo i gradoni a due a due e ancor prima di cercare il nostro posto a sedere, ci affacciamo sul campo. Il sole splende su quel prato verde che ci fa sognare. Ogni volta che lo guardiamo, riviviamo la nostra esistenza. Forse non vedremo lo spettacolo che desideriamo, ma siamo lì, non ci azzardiamo ad andare via, restiamo perché quel mondo ci appartiene. L’odore del nostro teatro all’aperto, con le curve che danno spettacolo e quei ragazzi che magari non sono campioni, ma per quella domenica si trasformano nei nostri eroi. Rossazzurri, semplicemente. Restiamo sempre con loro, battagliamo al loro fianco. “Noi con la voce, voi con il cuore”. Catania è anche questa, soprattutto questa. Il piccolo nido di casa che si tramuta nell’estesa comunità cittadina. La passione di mio padre, che ha ereditato da mio nonno e che mi ha trasmesso quand’ero ancora un bimbo. E io da bambino non vedevo i conti, i debiti e le scadenze, non sapevo che fossero. Solo che mi fidavo di chi mi regalava quella gioia la domenica, perché l’aspettavo tutta la settimana e poi ne parlavo lunedì coi miei compagnetti di scuola. Il Catania era il mio migliore amico, che mi faceva dimenticare l’interrogazione del giorno dopo e non mi faceva pensare alla ragazzina che non voleva mettersi con me. E io gli ho sempre voluto bene, perché mi faceva sorridere e io credevo sempre in quello che faceva. Vedevo quei giocatori in campo e sognavo di conoscerli, di fare sapere loro che fossero i miei idoli e che avrebbero avuto tutto il mio sostegno se loro si fossero impegnati nel portare la gioia per la settimana successiva. E mio padre che ogni lunedì cominciava male il lavoro perché magari il Catania aveva perso una partita importante, ma il lunedì successivo invece contattava i clienti positivo perché la squadra aveva vinto. E poi quei 90 minuti, costantemente sacri, vissuti sempre fra silenzio ed esplosione, mentre tutti i problemi quotidiani rimanevano fuori da quello stadio. Non lo capiranno mai gli altri, perché bisogna nascerci così e poi ci si deve crescere insieme. Perché quando siamo tristi ci consoliamo col Catania, perché se poi perde la nostra domenica ormai è segnata, ma se invece vince ci portiamo la fidanzata fuori a cena e fa contenta pure lei. Non toglieteci tutto questo, datevi da fare. Rompiamo ogni silenzio e gridiamo a squarciagola per salvare la storia. Che non è solo quella di una squadra di pallone, ma è anche quella mia, di mio padre e di mio nonno. È quella del vicino di casa che commenta la partita con me solo perché mi vede col cappellino rossazzurro in testa. È anche la storia di un amico lontano che magari ritrovo all’improvviso e sa di che cosa parlarmi. È la storia di tutte le persone che non conosciamo, ma che per il solo fatto di tifare la squadra dell propria città come noi, allora diventano quasi nostri consanguinei. Siamo tutti lì sulla stessa barca: quando si parla del Catania nessuno è diverso da chi. Il tempo non deve scadere, non permettete che vengano cancellati i nostri anni e la nostra passione. Non riducete a meri ricordi pezzi interi della nostra vita, dateci ancora il modo di viverci le domeniche come ci tramandiamo di padre in figlio da più di settant’anni a questa parte. Regalateci il futuro, non abbandonateci dentro il vuoto incolmabile. Il Catania è tutti noi. Non si può, NON SI DEVE lasciarlo morire in un’arida aula di tribunale. Abbiate rispetto per tutti coloro i quali hanno vissuto, vivono o hanno dato la loro esistenza in sacrificio per questa gloriosa maglia. 11700 non rappresenta soltanto un misero numero, non sono affatto 5 cifre messe lì a caso. 11700 è un marchio indelebile, un’identità, un modo di essere. È tradizione, costruita con fatica immane, impressa con il cemento armato nella testa, nel cuore, nell’anima. Restano 9 giorni. 9 lunghissimi giorni in cui chi di dovere, che possiede il destino tra le mani, dovrà fare di tutto, il possibile e l’impossibile, per rianimare la meravigliosa creatura dipinta di rosso e d’azzurro. Per salvare l’amore, la passione, ma anche decine di famiglie che non riescono più a mettere qualcosa a tavola per i propri bambini. Che le ultime parole non siano “Non c’è stato nulla da fare”, bensì “È fuori pericolo”. Dopo il buio della notte, torna sempre la luce splendente dell’alba. Tocca a voi, però, far sorgere il sole. Che questo appello non resti vano. Salvate il Calcio Catania.
A cura di Federico Fasone e Daniele D’Alessandro
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