RIDATECI IL PALLONE

Sembra un incubo, una palude oscura da cui non si riesce più a venir fuori. Il tempo scorre, inesorabile, senza un minimo accenno di frenata. Catania, addolorata e pugnalata in pieno petto, spera sempre di riaprire gli occhi e tirare un sospiro di sollievo: “Era solo un sogno”. No, non è così.

L’Elefante è stanco, provato, non riesce più a innalzare verso il cielo la sua immensa proboscide. Chiacchiere, voci, indiscrezioni, smentite, conferme. Certezze e incertezze, vie di mezzo senza senso. Una litania infinita, stucchevole, fastidiosa e avvelenante nel suo ripetersi con ritmo quotidiano.

Il ricordo dell’attesa di una partita, di una gara “da mille e una notte”, è divenuto solo questo: un ricordo. Quando l’unico pensiero al risveglio della domenica era solo: “Non vedo l’ora di andare allo stadio”. Ripensarci, adesso, fa ancora più male, troppo. Maledetta nostalgia, canaglia e drammatica nello stesso, medesimo, istante.

Il tifoso catanese è saturo, non ce la fa più. Vuole tornare a tifare, urlare, popolare quella che è sempre stata casa sua e che oggi appare come un teatro spoglio e silenzioso dentro cui 22 atleti corrono dietro un pallone.

Questa città arde dal desiderio di esplodere di gioia per un goal, di vincere e stravincere, persino di “farsi il sangue acqua” per una sconfitta immeritata. Oppure, dato il periodo, fantasticare sull’acquisto di un nuovo calciatore, restando incollati 24 ore su 24 al proprio smartphone in costante ricerca di notizie.

Catania rivuole indietro il calcio. Il suo calcio. Una supplica, una preghiera, a chi di dovere: restituite i sogni al cuore della gente. Fate in fretta, non c’è più un secondo da perdere.

Daniele D’Alessandro

 

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