TI RICORDO ANCORA – C’È SOLO UN CAPITANO

Il calcio è metafora di vita. Da bambino me lo dicevano in molti e io prendevo per buone quelle parole perché in fin dei conti le mie giornate ruotavano prettamente attorno le vicende dei miei beniamini preferiti. Quello che facevano in campo lo prendevo come esempio per crescere e diventare adulto un domani, proprio come loro che non mollavano mai, sapevano soffrire e poi portavano a casa la vittoria. Adoravo chi trascinava i compagni, ne desideravo il carisma, ripetendomi che un giorno avrei voluto essere esattamente come lui.

Davide Baiocco era senza ombra di dubbio uno di questi, nome che riecheggia inevitabilmente nell’eternità rossazzurra. Non solo per quella fascia di capitano, che peraltro portava nell’animo ancor prima d’infilarla al braccio. È vero, aveva molte qualità tecniche, soprattutto però possedeva le doti naturali del condottiero: grinta, motivazione, sudore. Bastava leggere il suo sguardo durante una partita per capire che per lui non esistessero scuse di alcun genere, perché quando c’era il Catania in campo, allora doveva essere l’ultimo a smettere di combattere. Ne sapevano qualcosa quei poveri arbitri che se lo ritrovavano davanti. Scommetto che quando veniva resa pubblica la designazione per la domenica, il fischietto di turno imprecasse in aramaico una volta venuto a sapere che avrebbe dovuto dirigere il match dei rossazzurri. Anche noi sugli spalti c’incazzavamo con lui e per lui, quasi finendo col maledirlo ogni volta che non riusciva a trattenersi per poi farsi ammonire puntualmente dal direttore di gara. Ragionava d’istinto, gli ribolliva il sangue e faceva la voce grossa per i colori della squadra che difendeva. Eppure Davide era questo, prendere o lasciare… ma che dico: assolutamente da prendere.

Motorino di centrocampo, portatore di palla vecchio stampo. Veniva investito dai compagni del compito di tirarli fuori dalle situazioni scomode, infatti doveva raccogliere la sfera e poi correre, correre e ancora correre finché non avrebbe pescato qualcuno che a sua volta avrebbe finalizzato tutto il lavoraccio di quel centrocampista semplicemente indefesso. Punto di riferimento, proprio così, che all’interno di una squadra di pallone è realmente imprescindibile ogni volta che tutto diventa difficile. Magari in quei determinati momenti non c’era niente che non andasse storto, così si rischiava seriamente di perdere, però poi toccava a lui trasformare le circostanze avverse in buoni motivi per esaltarsi, in maniera tale da ribaltare gli equilibri e condurre i suoi verso la gloria. Poteva farlo con uno scatto arrembante, un intervento in tackle a sradicare palla dai piedi dell’avversario o più concretamente urlando a chi aveva accanto quando c’era da stringere i denti e lottare su tutti i palloni. Sono convinto che avere in campo qualcuno fatto in questo modo permettesse di innalzare esponenzialmente il livello complessivo d’impegno, sacrificio e abnegazione di chi giocava per quella maglia meravigliosa.

Se avesse avuto anche il tiro forte e preciso, allora credo proprio che Baiocco non si sarebbe limitato ad esordire in Champions League, ma ci sarebbe pure rimasto. Non per questo la sua carriera dovrebbe avere qualcosa da invidiare a qualche suo collega più rinomato, dato che dovunque è stato ha lasciato il segno, ma qui a Catania è rimasto per la vita. Non so con precisione che tipo di legame viscerale si possa creare fra questa città e giocatori di un certo spessore umano, ma sembra quasi che quel profondo senso d’appartenenza che proviamo si trasmetta nelle vene di quei calciatori che restano impressi nella nostra Storia, rappresentandoci poi per quello che siamo: infaticabili guerrieri del Sud.

Pochi, soltanto due, i gol realizzati vestendo l’elefante per stemma. Una vera truffa se si pensa che proprio lui fosse fondamentale per le sorti etnee, ma si sa che il calcio non è fatto soltanto di occhi che brillano vedendo gonfiare la rete. Eppure quelle due segnature furono pesanti eccome. Agosto 2007, Parma-Catania, siciliani sotto per 2-1, poi Morimoto servì al centro dell’area l’accorrente Davide che calciò di sinistro sul palo più lontano. Il capitano esplose in un grido misto a rabbia e gioia: segnò la sua prima marcatura in rossazzurro proprio nella prima partita con la fascia al braccio. Il calcio è pazzesco proprio perché sa trovare il modo di intrecciare il destino di un giocatore con la vita di una squadra. Tutto dannatamente romantico per intenderci.

E poi ancora l’anno dopo, nella vittoria interna contro la Roma. Reti bianche al “Massimino”, ancora per poco a dire il vero: Mascara recuperò palla a centrocampo e s’involò verso la metà campo avversaria, poi arrivato al limite dell’area concesse la sfera a Baiocco che con lo scavetto battè il portiere. Anche quella volta fu festa con annessa esplosione di giubilo, direttamente sotto la curva, dopo aver sbloccato una partita difficilissima. Insomma, ci doveva pensare il capitano in quel caso, poche storie.

Se dovessi cercare un termine adatto a descriverlo, non potrei proprio sbagliarmi, perché Baiocco era a dir poco pragmatico. Il motivo è chiaro e trasparente: sapeva subito come rendersi utile per raggiungere la vittoria finale, a seconda delle situazioni. Ricordo ancora quando il Catania soffriva e subiva le imbeccate degli attaccanti, così il capitano prendeva palla, se ne andava sulla fascia e poi si fermava all’altezza della bandierina del calcio d’angolo per guadagnare secondi preziosissimi. Una cosa che ormai si vede fare sempre di meno su un campo di calcio, eppure quella palla non riuscivano a togliergliela, quindi gli avversari s’imbestialivano oltre modo, gettandosi nel nervosismo più totale.

Baiocco giocava con la testa e si batteva col cuore, superava gli ostacoli con enorme determinazione e poi suonava sempre la carica. Come quel 27 maggio 2007, data storica per i nostri colori. Spareggio salvezza sul neutro di Bologna contro il Chievo. Prima del fischio d’inizio, classico riscaldamento pre-gara: quella era la partita della vita, occorreva vincere per salvarsi dall’inferno della Serie B. Non escludo che qualcuno potesse provare paura in quei precisi istanti, ma Baiocco era lì, a motivare e sostenere i suoi compagni, ad inculcare nelle loro teste che finché avessero giocato per il Catania, allora dovevano dimenticarsi di tutto ciò che non fosse battaglia, sofferenza e sacrificio. Quel discorso ci entrò prepotentemente dritto nel petto, mentre quei ragazzi scrissero una pagina epica dei nostri ricordi.

Il punto è che Davide ci teneva fin troppo particolarmente, anche a costo di fracassarsi due dita contro un armadietto dello spogliatoio e condannarsi a giocare le ultime tre giornate di campionato con delle scomodissime stecche alla mano. La sconfitta bruciante di Modena dopo il gol illusorio di Spinesi, con gli etnei che spensero la luce e si fecero ribaltare in undici contro dieci dalla doppietta di Tamburini, entrato per difendere, ma reinventatosi goleador in quell’occasione. La rabbia era talmente infinita che andava sfogata su qualche oggetto, posso comprenderlo. Non avrei mai voluto essere in quello spogliatoio quel maledetto pomeriggio, però avrei certamente pagato milioni per essere suo compagno di squadra in questa vita. Ovviamente dopo quell’incredibile sfuriata giunsero tre vittorie di fila e l’apoteosi della Serie A, neanche a dirlo. Ma di capitani così, nel corso della storia, ne sono passati ben pochi da qui.

Federico Fasone

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