DIECI ANNI FA: QUEL GIORNO MERAVIGLIOSO

Aprire gli occhi quella mattina fu diverso. Il cuore già batteva, la mente era solo rivolta a ciò che da lì a poche ore sarebbe accaduto. Alzarsi dal letto, compiere i soliti abitudinari passi verso il bagno per lavarsi la faccia, recarsi in cucina per una colazione sana ed abbondante, perché d’altronde si sapeva già: quello sarebbe stato un giorno infinito. 

Il caldo di quel 28 maggio nessuno lo scorderà mai, ma quel giorno il sudore sgorgava più per la tensione di quella partita che per il sole cocente. Passavano le ore della mattina, aspettando le 15. Pareva d’essere nella stanza dello spirito e del tempo: i minuti sembravano ore; le ore sembravano giorni. Eppure arrivò quel fatidico momento.

Quel giorno tutto ciò che fosse di colore rossazzurro andava portato come un talismano oppure un santino. Dal cappellino, alla sciarpa, perché la bandiera, ma soprattutto la maglia non potevano mancare. Persino camminare nei luoghi più comuni, quel dì, era diverso rispetto a tutte le altre volte. Contare i passi che scandivano la distanza casa-stadio, poi, era ordinaria prassi al fine di dimenticare, almeno per un attimo, dove si stesse andando.

Giunti allo stadio era già un delirio. Anzi no, i cori si sentivano fin da Piazza Lanza, un canto che già faceva capire quanto fosse importante quella partita. E più ci si avvicinava, più suoni e timbri erano intensi. Quei canti spingevano tutti ad entrare, nessuno escluso: una vera e propria calamita umana.

Finalmente si entrò. Quello stadio, il “Massimino”, sembrava essere il “Bernabeu” oppure il “Camp Nou”: un tripudio rossazzurro. La gente stava accavallata, ma nessuno in fin dei conti era scomodo. Il colpo d’occhio era letteralmente sublime, che per la corrente del romanticisti, indicava un sentimento misto alla gioia e allo sconforto. Sì, la gioia di vedere una città dentro uno stadio. Lo sconforto di sapere che difficilmente si sarebbe ripetuto ciò che fu quel giorno.

Quando entrarono i calciatori in campo, chissà cosa provarono. Le gambe tremavano persino in tribuna alla sola presenza di quella bolgia. Suoni e rumori di uno stadio tappezzato a festa, perché quel giorno doveva esserci solamente un risultato. Le squadre entrarono in campo, accompagnate dallo scorrere delle immense coreografie preparate da entrambe le curve.

Nessuno può dimenticare la partita. L’esultanza per il gol di testa di Spinesi spaccò i timpani a chiunque fosse lì presente, ma il pareggio di Russo allo scadere del primo tempo gelò una città intera. I brividi scorrevano per tutta la schiena: solamente vincendo il Catania avrebbe scritto la storia. Dal 45′ in poi fu un succedersi di sentimenti che andavano dalla paura fino all’entusiasmo, passando per la speranza. Ma quel momento finalmente arrivò: Caserta scodella in mezzo per Del Core, che in maniera scoordinata ma efficace spinge il pallone verso la porta avversaria.

Già, scorrono ancora nella mente le immagini di quell’azione. Quel pallone lemme lemme che varca la linea di porta, spinto dai 70 mila occhi di coloro che fossero presenti allo stadio quel giorno, perché quello era il gol della Serie A.

Dopo ci fu spazio per un altro mix di emozioni. Gli ultimi minuti della partita si vivevano fra ansia e trepidazione, aspettando il fischio dell’arbitro.“Fischia! Fischia, cos’aspetti?! Non l’hai capito che è finita?!”. E quel fischio finalmente arrivò! Esplose l’urlo di gioia di una città che da 23 anni mancava dalla massima serie. Una città che era finita negli abissi dei campi polverosi dell’Eccellenza per poi risorgere dalle proprie ceneri. Quel giorno, trovarsi a Catania, era la cosa più meravigliosa che potesse capitare a chiunque fosse “ai piedi del Liotru”. La gioia si scatenò per tutte le strade. Da Piazza Europa a Piazza Duomo, fra trombette, clacson, musica, cori e migliaia di cuori che si univano in un’unica indimenticabile festa.

Dieci anni fa: quel giorno meraviglioso. Il giorno in cui il Catania scrisse la propria storia ed una città intera rialzò la testa dopo tanti lunghi anni bui e tempestosi. E nonostante la realtà dei giorni nostri sia così lontana da quel giorno, tanto amara al punto da far male a tutti coloro che tengano a questi colori, oggi, 28 maggio 2016, ricordare ciò che accadde dieci anni fa spaccherà sicuramente il fegato ai più, ma proprio in questo giorno ci si sente ancor più catanesi, ancor più fieri di esserci stati e di esserci ancora. Per sempre.

Non può essere apposta la parola “fine” a questa incredibile storia d’amore.

Federico Fasone

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