DALLA “Z” ALLA A? CATANIA, IL SOGNO POSSIBILE!

Tutti siamo cresciuti con l’immagine di un calcio puro, pulito e spensierato. Un calcio fatto di vittorie sudate, gol da mille e una notte, emozioni indimenticabili. Vedevamo tutto con gli “occhi di un bambino”, gli stessi che ci facevano innamorare di una squadra, ce ne facevano detestare un’altra e che non ci avrebbero più permesso di staccarci da quel mondo, forse non così perfetto, ma comunque in grado di farci sognare. Cosa spinge un appassionato di calcio a seguire così intensamente questo sport? Potremmo dire il tifo, magari l’appartenenza, oppure perché si tratta di un semplice divertimento.

Già, divertimento, proprio quello che a Catania è venuto a mancare da tanto tempo a questa parte. La passione e l’entusiasmo del tifo catanese sono stati spezzati da vicende che si allontanano del tutto dal pallone. Il 23 giugno 2015, infatti, la città di Catania è stata infangata da uno scandalo il quale “botto” si è sentito dappertutto: Pulvirenti & Co., qualche tempo prima, avevano alterato cinque (o sei) partite del campionato che si era appena concluso. Da lì in avanti è stata un’estate bollente, fatta d’indagini, inchieste e interrogatori vari. Ma in tutto ciò, c’è qualcosa che non quadra. I processi del caso, infatti, vengono effettuati in brevissimo tempo, quasi troppo in fretta. Il perché è molto semplice: i campionati devono ripartire, nel più breve tempo possibile!

Il primo dubbio emerge già nella stessa sentenza della giustizia sportiva, che recita così: ”Pulvirenti Antonino, incaricava il Delli Carri Daniele di porsi in contatto con Di Luzio Piero e di fungere da cerniera con costui per relazionarsi con Arbotti Fernando Antonio, il quale reperiva i calciatori disponibili ad alterare la gara offrendo loro danaro o altra utilità […] Arbotti Fernando Antonio, su indicazione di Di Luzio Piero, contattava i calciatori allo stato non identificati o in corso di compiuto accertamento o nei cui confronti sono ancora in corso ulteriori indagini penali […]”.

Stando a quanto appena citato, nemmeno la giustizia sportiva è riuscita ad identificare i calciatori interessati dallo scandalo, basandosi solamente sulla confessione del reo confesso Pulvirenti. Allora qui è d’obbligo fare una doverosa osservazione: se il Catania comprava le partite, doveva esserci per forza chi le vendeva. Quindi se vi sono calciatori che effettivamente sono stati corrotti, dovrebbe scattare la responsabilità oggettiva nei confronti della società d’appartenenza. Si tratta di una responsabilità senza colpevolezza imputata per fatto altrui, che opera anche nel caso in cui dall’illecito commesso dal tesserato derivi uno svantaggio in capo alla società stessa. E se ci fossero stati anche dei dirigenti in mezzo, cosa sarebbe successo? O cosa ancora potrebbe succedere? Ah, già… i campionati devono partire!

Dalle molteplici intercettazioni ascoltate, si rilevano molti altri dubbi su altre squadre. Potremmo prendere come esempio la famosa telefonata fra Di Luzio e Delli Carri poco prima della trasferta del Catania a Bologna, peraltro partita non incriminata. In quella chiamata Di Luzio chiede a Delli Carri di non far partire il treno dell’una e delle cinque, espliciti riferimenti a Gillet, che in quella partita avrebbe fatto una vistosa papera su un tiro di Cacia, e a Schiavi, che non avrebbe proprio messo piede in campo. Perché i due calciatori non avrebbero dovuto giocare? Forse perché il Bologna voleva combinare la partita a proprio favore? Un altro dubbio che sorge si rifà sempre a una telefonata di Delli Carri con Di Luzio, ovvero quando il primo dice al secondo che “a Bari costruiscono le palazzine al contrario di come le costruiamo noi”. Cosa avrebbe voluto significare? Forse che il Catania comprasse le partite, mentre il Bari le vendeva?

Insomma ci sono tanti nodi che non sono stati sciolti, a dimostrazione di quanto la giustizia sportiva – in Italia – sia davvero poco credibile. L’unica drastica soluzione che si sarebbe dovuta prendere, sarebbe stata quella di fare tutti i processi del caso, magari indagando su tutte le squadre che potessero generare sospetti, anche per un anno se necessario. Il fine sarebbe stato quello di tentare di ripulire totalmente e rifondare dalle basi un sistema fin troppo marcio. Ma una scelta del genere avrebbe comportato l’interruzione di tutti i campionati, senza distinzione, anche perché probabilmente sarebbe uscito del marcio almeno dalla metà delle squadre di Serie B. E probabilmente anche in Serie A!

Ma si è preferito “strumentalizzare” il Catania, il capro espiatorio di tutto il sistema truffaldino, fargli pagare le colpe di tutti, insomma. E anche se, probabilmente, la società etnea avrebbe potuto rischiare molto di più di quanto poi ha comportato la condanna, questa è una verità schiacciante! Ovviamente si è preferita la “via più facile”, semplicemente per una questione d’interessi e danaro, vista e considerata la pressione imperante del business sul calcio italiano, a partire dalle televisioni.

Guardando tutta la questione da un altro punto d’osservazione viene in mente che appena qualche mese fa, all’inizio dello scorso aprile, infatti, era stata avanzata una proposta “alternativa”: giocare la prima giornata del campionato di Serie A 2015/2016 all’estero, tra l’America e l’Oriente. La proposta era stata lanciata da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli e consigliere della Lega Calcio. “Ne stiamo parlando, ci vuole ancora tempo e ne dobbiamo discutere. Sarebbe bello giocare a New York, Londra, Parigi, Jakarta o Pechino, sarebbe un grande spot”, queste le parole con cui la proposta era stata resa pubblica. Il modello assunto è quello del cosiddetto “final-four” americano, modello già ricalcato dal nostro calcio in occasione della Supercoppa italiana, giocata in alcune edizioni tra Cina, Qatar, Libia e USA. De Laurentiis parlava di “spot”, come se stesse vendendo un prodotto. E forse il termine non è del tutto sbagliato: oggi il calcio è sempre meno un momento di aggregazione e di sport e sempre più un’occasione per speculare.

Ai valori dello sport vengono anteposti gli interessi di natura economica, cioè i campionati portano il nome di chi li finanzia, i giocatori sono più protagonisti di spot pubblicitari che di azioni in campo e le loro maglie sono tappezzate di sponsor; inoltre, la maggior parte dei profitti di ciascun club italiano (ovviamente di Serie A) proviene per oltre il 50% dai diritti televisivi e la restante parte è divisa tra pubblicità, introiti delle partite (biglietti e abbonamenti) e attività di diverso genere. Sulla proposta di De Laurentiis si è discusso anche su piattaforme televisive nazionali e non pochi hanno dimostrato di essere contrari all’iniziativa, dato che, qualitativamente, il calcio italiano non riscuoterebbe più il successo di qualche decennio fa oltre i confini nazionali.

Maurizio Beretta, presidente della Lega Serie A, nell’occasione ha ammesso le tangibili difficoltà della proposta per problemi organizzativi e di compatibilità, tant’è vero che, fortunatamente, la prima giornata del nostro massimo campionato si è giocata regolarmente negli stadi italiani e ne hanno goduto non esclusivamente le casse dei club, bensì i tifosi, gli stessi sempre pronti ad abbonarsi e a sostenere le proprie squadre ogni anno, sempre al loro posto sui gradoni dello stadio della propria città. I tifosi, infatti, sono coloro i quali rendono il calcio pieno di emozioni e sentimenti, quelli che vorrebbero più sport e meno spot! Quel genere di calcio visto con “gli occhi di un bambino” insomma…

Federico Fasone
Giuseppe Mirabella

 

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